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E una vecchia, curva come un tronco abbattuto, attraversò il cortile con una lanterna in mano e miagolò:

— Vengo, Lisa! e voi andate là da quel poveretto che a furia di piangere finirà per perdere gli occhi.

Era la casa della povera Gina.

Due ragazzetti, i suoi orfani, vennero a sedersi accanto al cane, con una enorme scodella di latte e pan giallo, ridendo e giocando, fra l’una e l’altra boccata. Ma il cane di tanto in tanto ripeteva i guaiti.

Partii da quel luogo, quasi col rimorso di averlo profanato colla mia indiscreta curiosità, e me ne ritornai al presbiterio, ripensando al sogno della notte e alla quantità e alla universalità degli umani dolori.

Le campane dell’Ave Maria squillavano malinconicamente; in assenza di Baccio si era andato a cercare il suo sostituto, un vecchio piccino, pellagroso, e che zoppicava. Nell’alternarsi incerto degli squilli si sentiva qualche cosa del suo incesso.

Entrai nella cucina, non illuminata che dalla fioca luce del crepuscolo: il fuoco era semispento. Un grosso moscone volava su e giù, ronzando affannosamente e dando ad ogni tratto del capo nelle casseruole appese ai muri. Non vedevo nessuno.

— Il curato dorme ed io bevo. Venite a farmi compagnia. Era lo speziale, accovacciato e sepolto nell’ombra sotto la cappa immensa del camino. Mi avvidi subito ch’egli si era rifatto, colla bottiglia, delle noie e delle fatiche della giornata. I suoi occhietti brillavano nel buio come due carbonchi. Gli sedetti dirimpetto, e, sorseggiando quel vinettinino davvero squisito, si cominciò a chiacchierare.