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VII.


Nulla di più pittoresco di quel sagrato. A un’altezza considerevole dalla campagna circostante, leggermente inclinato verso il villaggio, quasi per invitarne gli abitanti a salire, era coperto per metà da un’erba fitta ed uguale; l’altra metà era formata da una lunga scalinata a gradini bassi e lunghi di marmo bianco, levigatissimo. Un muricciuolo girava tutto all’intorno; in esso erano praticati de’ sedili, e vi pioveva ombrie profonde una fila di castagni piantati all’infuori, a distanza ineguali.

Salii verso la chiesa, da cui uscivano, miste al brontolìo della folla accalcata che giungeva fin quasi alla metà della scalinata, le cantilene sacerdotali. Al mio giungere, tutti quei visi abbronzati, tutte quelle nuche piatte e arruffate, fecero una evoluzione per la quale mi vidi addosso cent’occhi che mi guardavano meravigliati come all’aspetto di una bestia feroce.

Mi inoltrai con molta disinvoltura, urtando a destra e a manca, finchè, giunto sotto il pronao, m’avvidi che il proseguire era impresa impossibile. Mi alzai sulla punta dei piedi per vedere l’altare; memore ancora delle messe udite in compagnia di mia madre, m’accorsi di essere giunto in tempo, la messa era ancora buona; il libro non era ancora voltato. Il curato che ravvisai alla sua corona di capelli bianchi, era circondato da due preti, meno vecchi assai di lui, a giudicarne dalle cuticagne, una fulva, l’altra nera ma che avevano un punto di strana rassomiglianza nelle chieriche, di ampiezza fenomenale; le avresti dette due ostie appiccicate alle chiome. La