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fragilità non all’uomo, ma alla natura e le loro salme, scomposte e sparpagliate dall’aria, volavano intorno in vortici odorosi, a somiglianza di farfalle: non avevo quasi aperta la finestra, che il pavimento della camera ed il letto ne erano coperti.
Di là dal muro di cinta si protendeva la campagna, in pendio; pochi metri coltivati a frumento, esile e sparuto come un povero esiliato dal suo clima; e, interotte qua e là dalle macchie dei castagni e degli onici, praterie piene di sentieruoli. Più in su, la montagna da cui io era sceso il dì innanzi, arida e brillante delle sue frane silicee. Alla mia destra sporgeva, oltre il fianco della casa parocchiale, a poca distanza, un edificio rustico, di proporzioni, per quanto modeste, pure assai più grandiose di tutte quelle intravedute attraversando il villaggio. Certo doveva essere l’abitazione di Baccio. Due fanciulli vi stavano giocando sul balcone di legno, e una donna, col capo circondato alla moda montanina di un fazzoletto rosso, distendeva tutto all’ingiro i pannolini del bucato.
Fui interrotto nelle mie rapide osservazioni dalla buona Mansueta che, viste schiuse le imposte, si era affrettata a prepararmi il caffè e me lo porgeva, fumante e profumato, chiedendomi come avessi passata la notte.
Chiesi subito del curato: stava cantando messa.
Quel cantando mi fe’ rissovvenire che eravamo in domenica; epperò mi credetti in dovere di affrettare la mia modesta toeletta per dar saggio del mio rispetto ai doveri dell’ospitalità, col far parte dei fedeli raccolti in quel momento intorno a Don Luigi.
Discesi e, poichè la vecchia mi aveva preceduto di qualche tempo, giunto in faccia alla scaletta, mi