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cucina. Invece di quell’aspetto armonico di modestia, un non so che di gretta opulenza.

La porta del giardino stava spalancata, ma il giardino era scomparso. I cavoli e le patate occupavano le aiuole; appena qualche scarduffiato cespo di rose, mozzo dalla marra barbara dell’ortolano, le foglie rose dai bruchi, intisichiva sul terreno ove la sua razza aveva regnato.

Nel cortile passeggiava un prete leggendo il suo breviario: ravvisai tosto Don Sebastiano; la sua faccia non aveva mutato gran fatto; era diventato più scuro, più terreo. S’interrompeva per dar qualche ordine: ed accorreva una giovane tarchiata montanara dalle braccia e dal viso rossi come di terra cotta.

Avevo visto abbastanza e capito anche troppo.

Scappai di là e poi ridiscesi nel villaggio.

Passando innanzi alla farmacia vidi l’amico Bazzetta al suo banco. Il desiderio di trovare almeno una delle vecchie conoscenze mi spinse da lui.

Stentò a riconoscermi.

Ma poi, appena fatti i convenevoli, appiccò discorso come se ci fossimo lasciati il giorno prima.

Gli chiesi:

— Quanto è che Don Luigi?...

— Cinque anni, e fu un gran danno per Sulzena: invece della tolleranza, della carità di quel brav’uomo...

Non s’accorse dell’ironico sorriso che a quest’elogio postumo mi contrasse le labbra.

— ..... Abbiamo l’ultramontanismo spilorcio e fanatico di Don Sebastiano.

E senz’altro s’avviò a narrarmi le lotte intestine di Sulzena, in cui egli solo teneva testa al presbiterio e al sindaco alleati.

Io non gli credevo gran fatto; domandai di Mansueta.

— Ah, la serva... morta.— Ma domenica ventura...