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dove la luce degli affetti e delle memorie gentili non penetra mai.

Divorai l’erta come un soldato che corre alla carica, preparato a veder cadere ad una ad una le mie belle memorie.

Entrando in paese posi il piede in un motriglio che mutava buona parte delle straduccole in un rigagnolo. L’acqua discendeva dalla piazza, dalla fontana e, a giudicarne dal color verdastro di certi sassi, chissà da quanto tempo.

— Ohimè, gemetti, neanche Baccio non c’è più!

Difatti quando passai accanto alla vasca, vidi che l’acqua ne sgorgava da una grossa fenditura della pietra, Proseguii, attraversai per lungo il villaggio e sbucai sul sagrato; rividi il dolce pendio erboso, i sedili scavati nel masso, e le quercie fronzute li ombreggiavano come una volta. Ma la chiesetta aveva nascosto la sua venerabile facciata bruna sotto un orribile e volgare intonaco di calce su cui i monelli del paese tracciavano già sgorbi inverecondi.

V’entrai: un ponte ingombrava mezza la navata; ritto sovr’esso un imbianchino gettava colla sua scopa, delle grandi spalmate di gesso e latte sui vecchi affreschi e cantava a mezza voce una canzonaccia profana.

Ero capitato proprio in mal punto; pure non mi fu discaro di salutare ancora una volta una mirabile barba di padre eterno che mi aveva occupato moltissimo al tempo della mia prima visita. Quando fu scomparsa entrai nel Sancta sanctorum e di là girai intorno all’altare e passai nella sacrestia.

Non c’era nessuno.

Mi affacciai alla porticina che dava nel cortile del presbiterio; anche là c’era del nuovo: un grosso e tozzo pollaio ingombrava l’angolo fra la stalla e la