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sioni scritte di una paternità supposta. Quando egli andava a Sulzena, gli scriveva fingendo una subita disperazione del suo stato ed esprimendo l’intenzione di sottrarsi alla vergogna di cui mostrava grande paura. Egli, imprudente, che non poteva rassegnarsi a perdere quest’insperata avventura, le rispondeva qualche volta ed ella conservava le lettere.
S’era informata e sapeva che potevano servire come principio di prova legale.
Quando ebbe finito il suo racconto, il sentimento del giusto si sollevò in me.
— Rosilde, amica mia, le dissi con una certa severità, quel che fate non istà bene, e io non posso in coscienza farmi complice vostro.
Il suo viso si contrasse paurosamente, — il pensiero ch’io potessi distruggere l’edifizio con tante pene innalzato, la mise alla disperazione.
Mi guardò cupamente e disse:
— Ebbene io mi ammazzerò e finirò ogni cosa... E alzatasi repentinamente con una vivacità di cui non l’avrei creduta capace, sbattè il capo nel muro due o tre volte prima ch’io potessi trattenerla.
Riuscii, con stento, a calmarla. È inutile dire che le giurai di tacere.
Però qualche ora dopo, cercai d’intenerirla con altre ragioni: le parlai della creatura che stava per nascere: le feci presentire ciò che avrebbe avuto a soffrir dal De Boni a cui ella lo imponeva.
Strano! ella non aveva mai pensato al frutto delle sue viscere!
Fu tocca dalle mie osservazioni: — si raccolse dolorosamente; lagrime cocenti le sgorgarono dagli occhi.
Ma subitamente si rasserenò e mi disse:
— Ebbene voi siete buono, ci penserete un po’ voi a difenderlo.