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Una mattina, era pressapoco l’anno da quella sera lugubre del loro primo incontro, ricevette l’invito dì passare da lei.
La poveretta era ricaduta malata: l’aria pesante di Londra e gli strapazzi del palcoscenico avevano risvegliate le sue sofferenze di cuore.
Il dottor De Emma ebbe rimorso di abbandonare così colei che era la causa di ogni sua fortuna, e si trattenne tutto quell’inverno.
Anche allora egli riuscì a scongiurare la crisi minacciata.
Le sue cure vinsero la violenza del male. Verso il fine di febbraio Rosilde tornò a stare meglio, ma era tanto debole stavolta, tanto sfinita che la convalescenza progrediva molto stentatamente.
La rigidezza dei clima la teneva in continue oscillazioni. Il dottore pensava con viva inquietudine ai venti e alle pioggie del marzo imminente. Una settimana di tempesta poteva uccidere l’Inferma.
Allora egli suggerì il ritorno in Italia. Rosilde non disse nè sì nè no, ma non si decideva mai.
Il dottore indovinò il segreto motivo della sua esitanza, Ella non aveva più parenti all’infuori di Mansueta che stava a servire dal curato di Sulzena: la malattia aveva esauriti quasi interamente i suoi risparmi. In Italia come e dove avrebbe vissuto?
Il dottore ne parlò a Jenny, le ricordò le obbligazioni ch’egli aveva alla Rosilde, gli confidò il suo stato e la pregò di trovar modo di aiutarla.
La giovine sposa, buonissimo cuore, interpretò rettamente e liberalmente il suo desiderio. Si recò essa stessa dall’inferma e tanto fece e tanto disse che l’indusse a seguirli in Italia.