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De Emma, nella sua passione di medico, non si sgomentò per questo.

Non vide in lei che un organismo da conservare a dispetto della sua volontà e prese a cuore il suo compito.

Per parecchie settimane fu una guerra continua fra il medico e l’inferma. Egli faceva valorosamente il suo assedio, ed ella, benchè soggiogata da quel fermo proposito, si schermiva con delle segrete astuzie, con delle resistenze dissimulate.

Però la crisi fu più lunga di quello che il dottore si riprometteva: quando credeva d’averla vinta scoprì d’aver di fronte un nemico formidabile. La Rosilde era affetta da un serio male di cuore che il suo tentativo di suicidio aveva aggravato. Era questa la causa della sua disperata risoluzione; la disperazione di guarire l’aveva buttata nelle braccia della morte per finirla colle ansie, colle terribili delusioni di una lenta consunzione, che pareva inevitabile.

Quel giorno Rosilde gli gettò come una sfida queste dure parole:

— Per far tanto armeggio bisognerebbe almeno sapermi rifare questo ordigno guasto. E picchiava coll’indice sul suo seno ansimante per l’asma, eh! che ne dite, patria?

— Lo spero, rispose gravemente il De Emma con una sicurezza che non era punto una simulazione.

— Davvero? ebbene proviamo.

Da quel giorno fu di una docilità assoluta. Ella amava la vita.

Il romanzo della ballerina del Covent-Garden, rivestito di tutte le grazie letterarie dei giornali, corredata delle ipotesi e delle spiegazioni con cui si fabbrica il mistero, menò grandissimo rumore.