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sprudenza ecclesiastica, suppellettile indispensabile, parecchie file di volumi legati più modernamente, e taluni con una tal qual civetteria più da gabinetto di dama che da studio di prete, annunciavano nel mio ospite una coltura elevata e gentile.
Ciò per la scelta così come pel numero. I classici da Omero a Menandro, da Tucidide a Plutarco, rappresentati nei più profondi e nei più fantasiosi; i nostri poeti, un bel Dante coi commenti del Portirelli, legato in oro, e l’indice della Divina Commedia del Volpi; un Boccaccio, — ad edizione non purgata. — i poeti minori, l’Ariosto. Notai l’assenza di messer Francesco e del Tasso.
Manzoni chiudeva l’augusta falange. In fatto d’arti figurative, il curato non era nè troppo eclettico nè troppo avanzato. Alle pareti pendevano dentro cornici che un giorno erano probabilmente dorate, quattro larghe ed alte stampe rappresentanti il giudizio di Salomone, Giuseppe venduto dai suoi fratelli, Alessandro che taglia il nodo Gordiano, e il sacrificio di Abramo. Insieme formavano come una selva che tu avessi veduta attraverso alla nebbia, irta di braccia ritorte, ad angoli acuti, retti, ed ottusi, di gambe ravvoltolate, raggrinzate, incrocicchiate, di torsi scabri più della corteccia del pino, di movenze in aperta congiura contro l’equilibrio, di panneggiamenti più complicati e più indecifrabili che non siano per me e forse anche per voi i logaritmi. Il barocco aveva detta l’ultima parola in quelle quattro composizioni evidentemente uscite da un’unica fantasia; e lì come incastrati nella parete umidiccia, sopra ampie scranne a forme rettangolari, erano tale una stonatura da mettere i brividi al più volgare dei beoti.