Questa pagina è stata trascritta e formattata, ma deve essere riletta. |
— 223 — |
Alla sua voce accorrono il curato e il dottore: parlano tutti insieme. Scendo anch’io.
Appena mi vede, Mansueta alza le braccia:
— Oh che disgrazia, oh che disgrazia, il sindaco....
— Andiamo, dove l’hanno portato? domandò il signor de Emma.
— Nella farmacia, risponde il montanaro. E s’avvia. Li seguo.
Per istrada il buon uomo conta al dottore che Beppe, tornato improvvisamente in paese, ha appostato il sindaco che all’ora consueta si recava dallo speziale, l’ha forato da tutte le parti.
Accorse alle grida lo speziale col suo garzone, lo trovarono che trascinava pei piedi il moribondo. Ci vollero tutti gli sforzi per levarglielo dalle mani. Egli era furibondo, gridava: — l’ho finito io, — e vo’ buttarlo nell’acqua: non bisogna sotterrarlo in terra di cristiani, vicino alla Gina!
Il dottore, a cui certo premeva assai più la salute del feritore che non la vita del ferito, s’informò di Beppe.
Il montanaro rispose ch’era scomparso. Nessuno aveva tentato di trattenerlo. Tutto il paese era per lui: si sapeva bene, s’egli aveva menato era che gli avevano fatto il solletico nelle mani. Naturale! levate il sentimento ad un uomo e diventa lupo.
Era giustizia greggia, ma giustizia giusta.
Potei accorgermi quanto fosse odiato a Sulzena il signor Angelo: dopo il primo momento di allarmi il villaggio era tornato silenzioso. Non era indifferenza, ma noncuranza volontaria e ostile.
Notai che molte finestre erano socchiuse, altre semiaperte; ma non vidi una sola porta aperta.