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vano nell’ombre i lineamenti e restavano ingrandite le linee. Le forme di quel poema di terra e di cielo lasciavano a nudo il concetto. Il quale esprimeva una cupa tristezza.

Il profilo del villaggio si disegnava debolmente sul fondo bianchiccio del monte: ai due capi opposti il presbiterio e la casa del sindaco: il primo, a spigoli retti semplici, smussati agli angoli da gruppi di piante: ritto in mezzo l’esile campanile tendente al cielo; — l’altra tutta a sporgenze, a denti come una immagine di un accattabrighe. Si sarebbe detto che quei due edifizi recassero impietrita la storia del lungo dissidio fra i loro abitatori.

E la fantasmagoria acquistava man mano efficacia: altre figure venivano ad aggiungersi alle prime.

In mezzo alle due case dominatrici un po’ indietro la specola quadrata dello speziale come un curioso che coi debiti riguardi osserva due litiganti che stanno per venire alle prese.

Una quarta casupola si levava sopra la linea media del villaggio; imboscata fra due noci giganti che le sorgevano ai due lati: dopo lunghi calcoli, conchiusi che fosse l’abituro di Beppe, smilzo, gramo.

Era notte chiusa. Affrettai il passo; facevo d’indovinare le pietre meno aguzze per posarvi il piede, incespicavo sovente. Qualche volta cadevo; una volta percossi colla fronte una delle croci disposte lungo il sentiero a ricordo di una sciagura. Non so perchè avevo quasi paura come quando ero bambino; involontariamente pensavo ai viottoli vivaci della mia Milano, ai crocchi gioviali dell’osteria del Gallo.

Malgrado le difficoltà camminavo lesto, vo a saltelloni, a sdruccioloni, e mi avvicinavo rapidamente a Sulzena.