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La notte era splendida e calma; si sarebbe potuto leggere, al raggio lunare, la più microscopica scrittura di donna; e, tranne il gorgheggio sommesso di un usignuolo, che rompeva l’aria a intervalli, per l’ampia vallata non errava che il suono de’ miei passi e di quelli del campanaro che mi seguiva zoppicando.
L’idea del sindaco pareva averlo messo di cattivo umore; giacchè la sua fisionomia sincera e gioviale erasi alquanto rannuvolata, come sotto la preoccupazione di qualche cosa di triste.
A un tratto, un rumore di passi accelerati giunse dalla parte della chiesa, e apparve davanti a noi una strana figura umana che gesticolava, venendoci incontro in mezzo alla strada.
Quando ci fu a due passi, diede in uno scroscio di pianto, e mettendo le mani sulle spalle della mia guida, non accorgendosi forse nemmeno di me:
— La muore, Baccio, la muore proprio! Oh! la mia povera Gina... la mia povera donna... così giovane... così...
Le lagrime lo soffocavano. Il campanaro era lì come impietrito. Poi disse:
— Ma se la stava meglio! Anche il signor curato cominciava a sperare...
— Sono stato adesso a chiamarlo. Ah! Baccio, Baccio, la muore!...
E proseguì verso il villaggio brancolando.
Era un giovane sui trent’anni, alto e tarchiato. Egli aveva detto quelle parole con accento di così profonda desolazione, che me ne sentivo tutto atterrato. Nulla infatti di più straziante che lo spettacolo del dolore negli organismi sani e robusti.
Ci aveva lasciati appena, che il curato apparì. Sembrava assai vecchio, e accelerava il passo con