Pagina:Praga - Memorie del presbiterio.djvu/17


— 7 —

muto compagno di viaggio colla compiacenza con cui una forosetta avrebbe vagheggiato un monile.

— Non ve ne sono mica sulle nostre cime di camosci così grossi; è forastiero, vossignoria, non è vero?

— Sì, siamo d’altri paesi tant’io che il corno. Veniamo da lontano, epperò abbiamo bisogno di mangiare e di dormire; se dunque voleste aver la bontà di indicarci....

— D’osteria propriamente non ce n’è: ma c’è di meglio.

— Che?

— C’è il curato!

— Ma che c’entra il curato coll’osteria?

— Se c’entra! La mi dica, sarebbe cosa decente che, per mancanza della locanda, non si potesse alloggiare un cane in paese?

— È giusto. Ed è il vostro curato che ha messo insegna?

— Oh! insegna, no; un prete, le pare? E poi che importa l’insegna; quelli che girano il mondo non le mangiano mica le insegne delle osterie, nè vi dormono sopra.

L’importante è che trovino un desco ed un letto; ciò che si trova dal signor curato per l’appunto. E, soggiunse, ammiccando furbamente gli occhi, non si paga niente.

Quest’ultima informazione mi decise. Già mi aveva ripugnato l’idea di dormire sotto il tetto di un prete; quella di dovergli restare debitore di un servigio mi fece cavar dalle tasche la carta geografica e andarvi in traccia di un’altra possibile meta.

Il lettore non si scandalizzi di questa mia istantanea ripugnanza, apparentemente, solo apparentemente, volterriana.