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— per le circostanti praterie assiti e panche e tende d’ogni colore e d’ogni foggia con vendita di vino e di birra; e ciarlatani e spacciatori di zolfanelli e cantatori di bosinate, a suon di pifferi e di chitarre; — e forestieri a bizzeffe, e di quelli, veh! venuti le cento leghe da lontano; e il cortile dell’albergo pieno zeppo di carri e carrette e carrozze, — e fior di signori e signore dagli abiti di panno chiaro e dagli ombrellini di seta e, — ad ogni quarto d’ora,— una salva di mortaretti che faceva traballar tutto e tutti dall’un capo all’altro della borgata.

Io vedo tuttociò come se mi fosse ancora presente davanti agli occhi; mi sento ancora pigiato da quella folla variopinta in cui si faceva largo di tratto in tratto, coll’autorità dell’abito e forse più con quella dei gomiti, qualche pievano in ritardo, già prelibante la lauta imbandizione del parroco; in cui si incrociavano in altrettanti saluti, congratulazioni, appuntamenti per la cena e pel ritorno, tutti i minuscoli dialetti della Brianza, da quelli asmatici di oltre Adda, e i secchi e spiccati del piano d’Erba, fino ai cadenzati e grassotti che cominciano verso la Camerlata e si spandono, con poche varianti, su tutto il territorio di Varese, per dar posto ad una lingua, quasi nuova di zecca, sulla sponda sinistra del Verbano.

Tutta quella moltitudine era diventata d’un tratto immobile, tutto quel cicalio era cessato come per incanto, a un nuovo e più formidabile sparo di mortaretti e allo scoppio di una allegra fanfara che annunciava l’arrivo della processione e quello della nuova Madonna con essa.

Come la cattolica Dea passava davanti a me ed io contemplava curiosamente quella figura dipinta dal