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terse vetrate della cupola un raggio di effetto sapiente, una luce tranquilla che ispirasse un dolce e gradevole raccoglimento.

Ed era poi tanto umano e tanto sollecito dei suoi parrocchiani; egli prendeva sul serio la sua cura d’anime: dove si soffriva non mancava mai nè il suo soccorso nè la sua consolazione. Certe mattine all’alba mentre uscivo per le mie corse montanine lo incontravo che rientrava: aveva passata la notte al capezzale di un infermo; era stanco, afflitto ma non abbattuto: mi dava il buon dì con un sorriso ed entrava in chiesa ad offrire davanti al suo tabernacolo i voti della povera creatura di cui aveva nella veglia penosa assistito i patimenti.

In quei momenti sentivo tutta la sua superiorità, tanto più grande quanto più inconscia.

Quando don Luigi veniva alla Cascata, era un amico, un ingenuo compagno che conosceva molto meno di me le cose e le vie del mondo.

Una cosa mi meravigliava: Don Luigi non parlava mai di sè.

Se, discorrendo, mi appellavo alla sua esperienza e gli dicevo: «voi sapete questo e quest’altro» non diceva nè sì nè no; qualche volta impensieriva come se una subitanea rimembranza lo assalisse. E la tristezza, ogni giorno crescendo, gli oscurava lo sguardo.

Un giorno, mentre all’ora consueta, noi due eravamo alla Cascata, capitò il dottore De Emma. Era stato a casa, non ci aveva trovati ed era venuto a raggiungerci. Sedette sotto i noci e fe’ da terzo nella nostra solita conversazione.