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La passione aveva picchiato alla porta del suo eremo, — il santo era forse riuscito a respingerla, ma non senza fatica, — lo mostrava quella curiosità ch’io aveva potuto ravvivare disotto alla cenere degli anni, il temperamento sanguigno del prete.... una segreta cura che gli leggevo nel viso.... Ma dopo tutto che gusto era il mio di investigare l’umile, il comunissimo romanzo di un povero prete? Non so, — non già per irriverenza malevola, — per un vivo capriccio di artista, di psicologo, null’altro. Del resto il mio rispetto per lui non poteva scemare per la conoscenza di qualche umana debolezza.

Tuttavia, tanta è la forza delle massime convenzionali avute dall’educazione, che qualche volta arrossivo di questa mia innocente curiosità. Me ne vergognavo come di una profanazione.

Don Luigi nell’esercizio del suo ministero me ne imponeva. Sapeva congiungere alla dignità del sacerdozio una grande semplicità di cuore.

Una volta, nel pomeriggio della seconda domenica dopo il mio arrivo a Sulzena, ero passato innanzi alla porticina del coro mentre egli faceva la dottrina ai ragazzi: mi fermai ad ascoltarlo: la sua voce delicata, armoniosa arrivava a me congiunta alla soave fragranza del tempio e le somigliava: egli alternava alla recitazione dei dogmi l’insegnamento di una sua morale spontanea, indulgente, amorevole. Egli era sicuro del suo Dio e delle promesse che faceva in suo nome.

Nelle sublimi puerilità del rito, nelle premure quasi femminili per il suo altare, era poeta ed artista e però anche fanciullo. Sceglieva le rose egli stesso per riempiere i suoi vasi, ne disponeva in leggiadra guisa i colori, vi faceva piovere su dalle