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un comodo pretesto di star là seduti fino a che il sole scendeva giù in Valsesia.
In casa mi dava soggezione la presenza di don Sebastiano, il vice-curato, — il quale, secondo l’usanza, partecipava sempre alla mensa del presbiterio. Egli non mostrava troppa simpatia per don Luigi; e il torto era tutto del suo carattere arcigno, del suo spirito gretto e farisaico. Quel testimonio freddo, impassibile, insensibile pareva fatto apposta per impedire le cordiali confidenze.
Nella solitudine della cascata, i nostri discorsi erano molto più intimi.
Si parlava di molte cose, ma più soventi di filosofia, di arte, di letteratura; egli non aveva ipocrisie, non si adontava s’anche cadeva nella conversazione il nome di un autore o di un libro messi all’indice dalla Romana Congregazione.
Confesso che soventi ce li facevo cadere io apposta, e, per quella curiosità che v’ho detto, lo guardavo di sottecchi per sorprendere sul suo viso gl’intimi sentimenti del cuore.
Nella letteratura moderna egli s’era fermato a Byron e a Chateaubriand, e del primo non aveva letto che il Child-Harold. Gli parlai del Don Giovanni. Poi, man mano gli feci gustare gli scritti piccanti degli autori più recenti: di Victor-Hugo, di Theophile Gauthier, di Heine, di cui avevo piena la mente.
Se gli domandavo le sue impressioni, — mi rispondeva schietto, anzi qualche volta preveniva egli stesso la mia domanda.
Mi faceva ripetere volentieri i miei poveri versi, — ed io sceglievo di preferenza i più bizzarri e i più sconclusionati. Li ascoltava con attenzione, senza