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qualcosa di più augusto che non fossero tutti i miei ricordi letterarii. Eppure quei ricordi mi preoccupavano con delle analogie singolari. Come la vedetta argiva attendeva il re dei re per denunziarlo al pugnale dell’adultera mogliera, mille astronomi dall’alto delle loro specole, indagano Iddio per tradirlo alle trafitture micidiali della scienza epicurea.

Ero allora al tempo delle grandi curiosità. A dieci anni spezzavo i balocchi per osservarne gli interni congegni; a venti provavo un’irresistibile smania di notomizzar gli ideali in cui m’imbattevo.

Per gli uni e gli altri mi rincresceva poi d’averli distrutti, — ma ogni volta tornavo daccapo.

La virtù del curato, la sua calma in mezzo a tante tempeste e a tanta malvagità, la sua fede nel bene erano enigmi che mi premeva di scandagliare.

Aspettavo con viva ansietà le confidenze, — le rivelazioni promessemi il giorno innanzi: ma quella sera non vennero: il buon vecchio pareva aver scordata, nella quietudine della propria contemplazione, la sua promessa.

Parlò con la sua bonaria argutezza di cose alte, sublimi; una soave malinconia cresceva prestigio alle sue parole. Era impossibile dubitare della sua sincerità. Io era un po’ distratto; ma a poco a poco il discorso cattivò la mia attenzione, e vi presi parte anch’io.

Dopo cena Baccio mi accompagnò nella mia camera.

Gli manifestai la mia meraviglia per la tranquillità dal curato.

— Sempre così, mi disse; quando lo colgono dei grandi dispiaceri ha degli accessi subitanei, violenti, ma che durano poco: egli si ritira in qualche angolo, passa qualche ora a pensare, — poi torna quel di prima, rassegnato, indulgente con tutti.