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— Il sindaco mi fa chiamare Ignazio, per un suo fine di ironia, ma il mio nome è Aminta.
— Curioso nome!... vuoi ch’io venga a prenderti qualche volta?
— No, fu lesto a rispondere, verrò io.
E così ci separammo amici, di quella vecchia e durevole amicizia che a dieciott’anni si fa in un’ora.
XIX.
Quando rientrai cominciava ad imbrunire.
Il curato stava seduto nell’orto, appoggiato al muricciolo, guardava verso la valle. Pensai ch’egli fosse assorto in gravi riflessioni; non ardii frastornarlo.
Ma dopo qualche tempo si volse e mi vide. Pareva calmo; con un cenno del capo m’invitò a venirgli d’accanto. Poi indicandomi le prime stelle che spuntavano in fondo al firmamento, — come continuasse un discorso cominciato disse:
— Credo che quei raggi sieno un linguaggio; altrettante voci di un colloquio immenso attraverso l’infinito, segnali perenni che trasmettono dall’un capo all’altro dello spazio la parola di Dio.
— Come i falò che dovevano ad Argo annunziare il ritorno di Agamenone, — dissi, e tosto arrossii della profana allusione.
Il curato tacque e forse non intese.
Tutt’intorno un silenzio profondo. Nella cucina Mansueta attendeva alle tranquille faccende della cena e faceva ripetere le orazioni ai bimbi di Beppe: le loro vocine mimmose, assonnate smozzicavano le frasi della preghiera. V’era in questa umile scena