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Dopo tutto gli originali come lui divertono i fannulloni come me, ed io ebbi, finchè rimasi al Presbiterio, cara la sua compagnia come quella di carissimo amico. Lo seguivo volontieri per qualche centinaio di passi giù per la china, felice di non essere menato ad uno scopo, felice dell’indugio perchè piacevole.

Quel dì scesi più in giù fino alla cascata. Quei di Sulzena chiamano così impropriamente una specie di rapida che termina in una cateratta dove lo Strona si perde per ricomparire due miglia più in là nella valle, tra il Passo degli Stambecchi e il cimitero di Zugliano. Il baratro è profondo oltre a cento piedi; vi si scende per uno scheggiato a zig-zag fino allo stretto bacino in cui l’acqua, dopo essere venuta giù sopra un letto inclinato di ciottoli, fa un gorgo e inabissa. Le pareti della rupe scavate dal torrente, simulano l’aspetto di tortuose gallerie, di stallatiti grossolane, e si appressano in alto sino quasi a toccarsi in un immenso sesto acuto, anzi acutissimo, tagliato nel mezzo da una fessura, da un cordone o bianco lucente o turchiniccio, secondo l’ora:— il cielo. Piove di là una luce tranquilla e soavissima, la cui monotonia è corretta dai riflessi tremolanti dall’acqua. Scendono dall’alto, lontani come echi dello spazio infinito, i suoni radi della vita montagnola, qualche schioppettata di cacciatore, lo slamar d’una frana, il battito dell’ali di qualche avoltoio, lo strido del falco. Altri suoni più cupi e misteriosi, a intermittenze meno frequenti, escono da un crepaccio di fronte, e narrano a voce sommessa l’odissea del torrente nei fondi recessi del monte.

Il lettore deve a quest’ora essersene accorto, — se strada facendo, mi si para davanti un ginepraio ine-