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II.


Molti anni, ciò che vuol dire molte sciagure, sono passati dal giorno in cui bussai a quella porta.

Compivo i venti, avevo la valigia del pittore sulle spalle, e un buon angelo mi guidava - un angelo che adesso chi sa dove è andato a nascondersi. Allora io vedevo e sentivo; splendore di cielo, verzure di convalli, scroscio di torrenti, belate di mandre, tutto brillava, profumava, cantava per la presenza di lui; e sul nostro passaggio gli atomi della natura si animavano al contatto delle sue ali per parlar meco di arte e di gloria.

Quel giorno la conversazione era cominciata al primo nascere del sole, e aveva continuato senza interruzioni per tutta la strada.

Epperò come fui vicino al villaggio di Sulzena, la stanchezza delle gambe prevalse. Si fece silenzio.

Tramontava il sole, e pensavo a mia madre; due tra le infinite cose da cui germina la umana tristezza.

Essa veniva lentamente impossessandosi di me, ma dolce, quasi voluttuosa, come quella che conduce alle lagrime, di cui parla Virgilio - quædam flere voluptas.

E forse le lagrime erano lì per sgorgare, quando la recrudescenza della fatica diede nuova autorità alle gambe.

Furono questi poveri stinchi a farmi accorto della presenza del villaggio.

Alla solita strada polverosa, soffice e piana come il pavimento di un gabinetto principesco, era successo un selciato di pietre druidiche, sul quale, a