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guono le sventure, sono le grandi trasmutatrici. Ogni loro minuto è un colpo di scalpello michelangiolesco. Il marmo candido, innocente, insciente s’atteggia in poco volgere d’ore a sovrumano furore di demone, la carne atteggiata alla espressione della pace, della mestizia, della mansuetudine, si è fatta brutale, freme, sogghigna, sembra volersi concentrare in un morso.

Tale almeno la faccia di Beppe.

Essa mi colmava di tanto stupore che non sapevo decidermi a rivolgergli la parola; e, poichè egli non aveva l’aria di accorgersi della mia presenza, continuai a camminare al suo fianco, pareggiando i miei ai suoi lentissimi passi.

A un tratto al dissopra di noi, dalla finestra della camera di don Luigi si fe’ udire la bella voce del medico.

— Signori, diceva, l’ammalato non più ammalato, desidera la loro presenza, e prega il signor pittore a voler passare in cucina ad avvisar Monna Mansueta che si prenderà quassù il caffè in compagnia.

Queste parole furono dette con un umorismo misto di serietà che mi piacque immensamente.

— Si viene, risposi; ed a Beppe:

— Saliamo.

Egli mi guardò, si toccò la falda del cappello e mi seguì.

Quando entrai con Beppe nella camera del curato, lo trovai diffatti intieramente riavuto.

Sorrise a me, stese la mano a Beppe e, tirandolo a sè, gli disse:

— Dunque senti figliuolo, abbiamo, il dottore e io, abbiamo concertato qualcosa per te. Tu non puoi rimaner qui: hai bisogno di far vita nuova. Il dot-