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La presi sulle spalle e lento lento, mentre il cuore e la testa non sapeva più dove fossero, raggiunsi, la mercè di Dio, la mia soglia.

La adagiai sul letto, livido, estenuata.

Il vicinato era accorso.

Il signor Arturo era scomparso. Poverino, si prese in corpo sei leghe, e a quell’ora, per andare in cerca di suo padre.

Allontanai tutti quanti.

Gina, dopo un lungo sopore, aperse gli occhi e mi vide.

Rabbrividii a quello sguardo. Ella rabbrividì più di me. E con una voce che sembrava venire da sotterra:

— Non guardarmi, sospirò, non toccarmi! Chiudi la porta!... È là... il sindaco!.... è là... porta in quel bel paese, in quel paese più bello, i nostri bambini!... Portali via, senza farmeli vedere!... oh! povera, povera me!

— Gina, dicevo io, Gina... dimmi, spiegati...

— Taci... taci... e si metteva un dito sulla bocca e alzava gli occhi al cielo.— Taci. Ho resistito, oh! se gli ho graffiato la faccia...

Ella cacciò allora la testa sotto il guanciale, ed io restai solo col lucignolo agonizzante...


XVII.


Una scampanellata che venia dalla camera di Don Luigi interruppe il racconto terribile del povero vedovo.

— Dio mio, sclamò, come destandosi a sua volta da un sogno, ho parlato troppo forte, l’ho risvegliato.