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guardava le altre donne; ma la poveretta era così buona e così virtuosa che non le passava nemmeno pel capo che al mondo ci fosse gente capace di fare il male e tampoco di pensarlo. Egli intanto aveva preso l’abitudine di venir molto di frequente in casa nostra, ora con un pretesto or coll’altro; io era obbligato dalle mie facende a passar quasi l’intiera giornata sulla montagna, e i miei vecchi erano ingenui come la Gina, e, poi via... erano vecchi. Alla sera, senza motivo alcuno, gironzolava di su e di giù davanti al nostro uscio.
Le cose andarono al punto che, un giorno, dopo la cena, poi che i vecchi e i ragazzi furono andati a dormire, la Gina, con una voce che non pareva la sua, e cercando quasi di non incontrare il mio sguardo, mi disse:
— Bebbe, ho bisogno di parlarti.
Me le sedetti vicino, presso il fuoco, ed ella, con quella voce sempre più diversa del solito, mi bisbigliò nell’orecchio, mettendomi un braccio intorno al collo:
— Ho paura del sindaco!
Io, che non mi ero accorto nè dubitava di nulla, — Del sindaco, esclamai strabiliato; oh! che cosa ti gira per il capo, stasera?
Allora ella mi narrò, come quel cane di un signor Angelo De Boni la perseguitasse già da più di due mesi, seguendola e arrestandola per le campagne e pei boschi, trovandosi sempre sul suo passaggio, sorridendole con un’aria bestiale, e dicendole delle cose... delle cose di cui ella non capiva il significato, ma che le parevano cose cattive, cose contro il timor di Dio. E le diceva con voce dolce e rauca... e — aggiunse quella mia sventurata celandosi la faccia