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Il povero vedovo sedeva presso il capezzale dell’infermo, e pareva moribondo.
Vedendo i suoi figli, ebbe uno strano gesto; ma si contenne, a un cenno del curato che continuò il discorso interrotto, dopo avermi salutato.
La sua voce era debole, ma lo sguardo lampeggiava. Aveva in mano la bibbia e ne cadevano rose.
— Stammi attento, amico mio, mio buon Beppe. La tua sciagura è terribile, la capisco e l’ammiro. L’ammiro perchè quella tua povera Gina, morendo, ti ha fatto migliore. Guarda un po’ quei due fanciulli, Beppe!... Sono la sua eredità; non beverai più l’aquavite quando scoccano le sei del mattino — (non farmi la brutta cera) — la bevevi, quotidianamente. Lavorerai dippiù; sentirai come sia dolce il vivere coi morti...
E piegò la bella persona verso i due fanciulli.
— Non ditele che è morta la loro mamma; la mia Mansueta ci penserà a prepararli...
Il buon Beppe mormorò:
— Grazie, signor curato.
Ma singhiozzava angosciosamente.
— Ho invitato al mio desco questo caro Beppe coi suoi due fanciulli; volete tener loro compagnia? Mi obblighereste. — Badate che si pranza in cucina.
— E sia! Vogliamo mettere il tovagliolo sulle ginocchia?
I due piccini avevano fame più di me e più di Beppe. Come furono contenti quando li ebbi adagiati davanti a una minestra... una minestra fatta per bene!