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Lo trovai nella sua farmacia, dietro il banco, occupato a servire una vecchia montanara catarrosa e febbricitante. Veder quella donna che, di femminile, non aveva che la gonna cenciosa, e pensare alle roccie basaltiche tutte a buchi e a crepacci, che si trovano sulle cime, in mezzo al verde, sparpagliate non si sa come e perchè — era la stessa cosa. Quella creatura apparteneva alla montagna, era una parte di essa; salendovi e scendendovi per settant’anni (che meno non ne mostrava) se ne era compenetrata la natura. Come esistono rupi che hanno profili umani, — argomenti a così buie leggende,— quella vecchia aveva le sembianze di una rupe; con un po’ di fantasia ne avreste scoperto sull’epidermide i licheni e il muschio. Ella brontolava senza interruzione, con una voce chioccia e malinconica la litania delle sue sofferenze; il farmacista continuava imperturbabilmente a stritolare le sue droghe in un mortaio di marmo, mescendovi ogni tanto qualche gocciola di valeriana, con una eleganza tutta particolare, e un sorrisetto d’uomo contento. Era, per un simile paesucolo, una farmacia veramente bella. Il legno inverniciato e i vetri degli scaffali erano senza scrostature e senza macchie. Le due bilancie scintillavano, tazze di porcellana, scodellini di ottone, cucchiai, forbici, il rotolo di cordicina color rosa, tutto era al suo posto, come se si trattasse di essere ispezionati da una commissione della Facoltà di Medicina. La porta d’ingresso era ampia; su una delle lastre stava scritto in lettere gotiche: 'Medicamenti nazionali ed esteri; sull’altra: Zafferano d’Aquila e Vischio sopraffino. Le finestre ai due lati, dovevano nei giorni di sole versare una luce carissima in quell’ambiente. Da una piccola porta che si apriva