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al lettore. 19

doveri ci chiamarono; e qui egli dimenticava troppo spesso il codice per Byron, Heine e De Musset, che egli chiamava la sua Trinità.

Dopo la laurea rimase a Bologna. In una notte d’inverno del 1870, che non saprei precisare (era carnevale), nella sua cameretta in via Zamboni, egli mi leggeva qualcuno dei canti che ora si trovano in questa raccolta, e, poichè io lo confortavo a pubblicarli, mi rispose scherzando che il farlo sarebbe stata mia cura quando egli fosse morto. Pur troppo lo scherzo divenne profezia. In quello stesso inverno sputò sangue.

Lo sapemmo tardi perchè in principio egli nascose quasi con pudore la sua malattia, ma pur lo sapemmo, e noi tutti che lo amavamo fummo ben dolorosamente sorpresi. Egli no; e quando gliene parlai per la prima volta, sorrise amaramente dicendo: ― Tanto a che servivo io? Meglio così. ― Era già rassegnato.

Cosa strana per un tisico, egli non ebbe mai illusioni sul proprio stato. Continuò tuttavia il