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di angelo poliziano 57

Né dell’opera lor sentono il peso,
Ché per se stesso allevia la fatica240
Il buon volere; ch’anzi pur nel grembo
Recano i pomi onde son curvi i rami,
E bacche, e fichi, e noci. E non è senza
Faccende il verno: allor delle sue coccole
Spogliasi il lauro; allor quelle del mirto245
Trascelgon essi e le caduche ghiande,
E striscian dell’ulivo i glauchi rami.
Di notte poi s’attarda alla lucerna
Il villano ad intessere fiscelle
Con sottil giunco, o a far graticci o rozze250
Ceste col vinco, a scinder faci o legni
Da ripari, o a rifar doghe alle botti,
O a togliere scabrezze a’ ferramenti,
O con sasso tritato a lucidarli.

Ora poi che dirò delle sue gioie,255
E del molto e beato ozio che segue




Nec sentitur onus studio, levat ipsa laborem
Sedulitas; quin frugiferos curvantia ramos
Poma sinu baccasque ferunt ficumque nucemque.
Nec nihil addit hyems: nigros tum laurea foetus
Exuitur; tum myrta legunt glandemque caducam,165
Glaucaque palladiae distringunt brachia sylvae.
Nocte autem ad lychnos aut junco texit acuto
Fiscellam, aut crates virgis, aut vimine qualos
Rusticus, infinditque faces et robora valli,
Dolia quassa novat, ferramentisque repellit170
Scabritiem, tritaque docet splendescere cote.
Nam quid delitias memorem? quamque alta labori