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di angelo poliziano 169

Delle sibille e le cumane grotte.
Né vincere potría l’orrenda voce
Il rauco suon delle guerresche trombe,
Non il tuono di Giove, non il fremito285
Della pineta che implacati i venti
Scuoton dell’Ossa sovra i gioghi, o delle
Cateratte precipiti del Nilo
Il rombo che il vicin popolo assorda.
Sovente anch’essi (chi lo crederebbe?)290
I legittimi vati hanno stupore
De’ carmi, che, dal nume posseduti,
Pria dall’anima espressero; s’offusca
Negli occhi il lampo inspirator, né sanno
De proprî detti a sé render ragione,295
Poscia che si quetò lo spirto e cadde
L’impeto sacro che le labbra urgéa.
E i carmi stessi, da sí lungo tempo
Al papiro che il Nil cresce affidati,




Phoebados aut rupem euboicam. Nec martius illum
Terrificum clangens rauci canor aeris obumbret,
Nec tonitrus Jovis, aut petulantibus incita flabris180
Ossaeo pincta jugo, Nilive ruentis
Exsurdans vicina fragor. Mirantur et ipsi
Saepe (quis hoc credat?) quae nuper cumque, recepto
Numine, legitimi cecinere oracula vates;
Caligatque animus visis; nec vindice lingua185
Defendunt sua dicta sibi; postquam ille quievit
Spiritus et pressi tacuit saccr impetus oris.
Ipsaque niliacis longum mandata papyris
Carmina phoebaeos videas afflare furores,