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della ragion di stato - ii 73


empie di reverenza i popoli; gli assicura da governo violento; e sta sempre alla guardia di quella porta, donde vogliono entrare gli inconvenienti piú pericolosi agl’imperi e piú dannosi a’ prencipi: li quali sono sempre poco lontani da qualche rovina, tutte le volte che la religione in essi non sia ferma. Di maniera che non dobbiamo meravigliarci se Aristotele, nel luogo sopra posto, pone essa religione come fondamento e guida, per regola e scopo della facoltá civile e della prudenza. E perciò nel fine de’ Magni Morali fece la prudenza civile cameriera maggiore della sapienza e religione. Ma veniamo agli esempi. Romolo per istabilir il suo nuovo regno non cominciò egli dalla religione, come scrive Livio nel libro primo? Scrive Plutarco, degli uomini illustri al capo secondo, che Numa Pompilio non con altro piú comodo mezzo fece piacevole e quieto il fiero animo de’ romani in que’ principi, che con la religione: e che cosí formò e confermò il suo regno, che mentre visse non gli fu mossa alcuna guerra, o forastiera o civile. Il savio consigliere di Augusto non altro piú ricordava ad Augusto che il culto de’ dei, e sempre gli persuadeva, che ancor con editti procurasse ne’ popoli la religione. E questo, sí perché è ben ragion di gratitudine adorar e venerar quello, che a sí sublime stato l’ha portato; sí per ragion di stato, perché conoscendo ogni uno quanto sia religioso, e sussequentemente amato da Iddio, gli invidiosi o insidiatori non cosí facilmente ardiranno d’intraprendere cosa contro lui o il suo stato, dubitando, che per la sua pietá Dio lo proteggerebbe. Troppo lungo sarei, se volessi con essempi provare, quante volte si è visto da Dio esser miracolosamente stati difesi e liberati da manifestissimi pericoli i prencipi pii e ardenti nell’amor di Dio e zelanti della religione; e in quanti pericoli e della vita e di perder lo stato, e nella total rovina siano stati i disprezzatori di Dio, della religione, e delle cose ecclesiastiche: e tanto piú sarei in ciò soverchio, avendo ciò compitamente adempito nel primo libro degli Aforismi Politici al capo quinto il signor Gioanni Chokier.