le sue scoperte all’Italia, al mondo, fra la gioia e forse l’invidia del Niccoli, del Traversari, del Bruni, del Marsuppini, del Manetti, del Biondo, di Ciriaco d’Ancona, di Enea Silvio, di tutta quella schiera di umanisti della prima metà del Quattrocento, che si distinsero per la universalità e che ebbero il “furore dell’inedito,” onde vennero dal Landiani il Brutus, dal card. Orsini le venti Comedie di Plauto, dal Poggio stesso i Mathescos libri. Meno i tristi quattr’anni passati in Inghilterra, dal 1423 alla morte, egli visse sempre in perenne attività di ricerche, nel culto delle cose belle, nella febre di resuscitare l’antichità, “fonte di ogni civiltà e grandezza.” A Roma, profittò del suo posto di segretario apostolico per imporre come taglia il ritrovamento di codici: era come una letteraria simonia, sempre famelica, sempre sognante scoperte novelle. A Firenze, o meglio, nella sua ridente villa Valdarnina, ove fra il verdeggiar degli alberi, biancheggiavano la sua casa, la libreria, il museo e le statue, i torsi, i busti all’aperto, venutigli di Grecia, non cercò tregua dall’amor suo primo; ma pace domestica e studio; onde il libertino che aveva avuto undici figli illegittimi da Lucia Pannelli, prese a 55 anni in moglie la nobile diciottenne bellissima Veggia de’ Buondelmonti, che fu la sua beatitudine domestica, e che nel 1450 gli donò il sesto figliuolo. Ma dopo il ritorno a Roma, nel 1443, con Eugenio IV, fra gli agi, i guadagni e la fama che le opere sue, abilmente dedicate, gli fruttavano, si sentí troppo solo, quasi nel cimitero degli amici che frattanto eran morti, e abbandonò l’Urbe nel 1453 per tornare alla sua Fiorenza, come cancelliere della repubblica. E nella sua villa morí il 2 novembre del 1459; ebbe tomba in Santa Croce e fu dipinto