Orobio omai dall’umili capanne,
ove fremendo qual lion s’appiatta,
cui le mascelle il cacciator numida 355strinse nel ferro, e le nodose zampe,
terror de’ boschi, disarmò d’unghioni.
Vedrai com’egli ognor costante e fido
a te ne’ lieti e negli avversi casi
degno sará che l’aquila gli stenda 360le negre penne sull’avito scudo,
e zelator di tue ragion si laudi.
Vanne, e l’altero tuo nemico e mio
cingi d’assedio, e lunga fame il vinca.
Io sarò teco, e di mia man percossa 365cadrá la porta aquilonar, cadranno
le detestate mura, onde le faci
e l’arme escíro alla mia patria infeste,
e me di ferro, e me vedran di fiamme
cinto esultar nel memorabil giorno 370gli attoniti soldati e il vulgo imbelle;
e tutta dalle sedi ime divelta
la superba cittá stender sul campo. —
Sí disse l’ombra, e nel partir sul letto
scosse il cener fumante, e del Vesevo 375le sulfuree faville, onde l’opposto
pendulo scudo d’improvvisa luce
un sanguigno vibrò lampo nel buio,
rauco sonando, e il mobile cimiero
fe’ sull’elmo regal cenno di morte. 380Ah! non invan parlò l’ombra sdegnosa
al vindice Euourbo, e tu lo sai,
cittá regina dell’Insubria, in alto
squallore avvolta, e per ludibrio i fianchi
lacera e guasta dallo svevo aratro, 385e d’infecondo sale il grembo aspersa.
Ma sul tuo scempio istesso a me sovente
lagrima di dolor bagnò le gote;