d’ignoto vate ne parlò cogli anni?
Lascia (benché tal rimembranza al mio
pensier grave ognor torni, e ne rifugga
per lutto estremo l’anima dolente) 140lascia, o patria, che almen l’ultimo pinga
tuo fato, e meco de’ tuoi colli il vento
a sospirar con flebil carme inviti.
Ecco giá presso alla cittá si fanno
quattro belliche torri, immensa mole 145sotto cui tarde stridon ruote, e suda
di piú giovenchi la cervice. A mille
van grandinando le selci aspre e i dardi,
nembo di morte impetuosamente
dalle murali macchine sospinto, 150e le crinite di cerulea fiamma
pingui fiaccole ed aste. In cento parti
gli aspri monton colla ferrata fronte
urtan, doppiando i colpi, il saldo muro,
e ne tremano i boschi, e n’ha spavento 155l’onda del Lario, e il monte alto ne geme.
Bronzo a tre doppi e rover dura al petto
ben ha colui che il misero lamento
de’ moribondi e l’infrante ossa e i rivi
può del sangue mirar con ciglio asciutto; 160e, di tant’armi al fulminar, non lascia
le conquassate torri e i merli e i tetti,
i cari tetti che giá vòlti in fiamme
piomban qua e lá con subita ruina.
Vano è l’ardir, vana è la forza. Il campo 165per molta strage non decresce, e rara,
benché di morte impavidi all’aspetto,
stendon sul muro i difensor corona.
Alfin mentre sepolte eran le cose
nel profondo silenzio della notte, 170e il letèo sonno piú dolce che mèle
sull’attendate squadre iva spargendo