piede spiarne ogni recesso, io vidi
un antro colassú di lievi tufi
e di pomici scabro aprir le fauci
immani sotto l’ederosa rupe, 210e di giocondo orror pascer la mente.
Ivi medita il saggio; ivi non foglia
in ramo la stridente aura percote,
non si lamenta augello, onda non suona.
Mirabil simulacro ivi s’estolle 215privo di sensi, ma non d’alma. In carne
trattabile addolcito, il pario marmo
finge tenera ninfa, e il verde opaco
de’ molti lauri, e i rugginosi massi,
che le stan dietro, biancheggiar da lunge 220la fan, qual luna cui la notte intorno
spiega, in mammola tinto, il largo velo.
Te, Prometeo novello, entro la muta
grotta covante oscuritá vid’io
pender sull’opra che scolpí tua mente 225indagatrice, e d’un braccio colonna
farti alla fronte, cui di grave empiea
rughe il lungo analitico pensiero,
finché, quasi da sonno alto riscosso,
punicea rosa dal materno stelo 230rimovi, e destro alle femminee nari
la tenera fragranza offri di maggio.
Al tocco soavissimo repente
svegliasi l’alma, che d’ogn’altra idea
priva il gelido informe immobil sasso, 235e tutta, all’urto incognito cedendo,
corre alle nari provocate, e trae
in sen coll’odorose aure la vita.
Cosí, qualor co’ primi raggi il sole
feria l’egizia pietra, ond’era tratto 240del giovin figlio dell’Aurora il volto,
parca che redivivo in piè tentasse