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iv - sonetti 113

XXVIII

ALL’ANNO SESSANTESIMO.

Sei tu, t’appressi, sessagesim’anno;
ti raffiguro al crin brinato, al lento
passo, a’ fastidi, e a quel che meni affanno
dopo il piacer che trapassò qual vento.
Ma forse i dritti tuoi vigor non hanno
in tutto farmi d’allegrezza spento:
verdi sul tergo i tuoi fratei mi stanno,
il numer sonne, il lor peso non sento.
La figurata damascena argilla,
grave allo spirto incarco, ancor non scema
il divin foco che da lui sfavilla.
Miralo in questa che non fia l’estrema
fatica, e nell’indomita pupilla,
specchio dell’alma che di te non trema.

XXIX

L’ANNO SETTANTESIMO.

Sorrisi all’altro, or ha due lustri, e fronte
tenne a le sei che ’l componean decine:
tu sopravvieni minaccevol d’onte
piú gravi e carco di piú fredde brine.
L’occhio men ampio né qual pria sí pronte
vibra scintille, e piú che mischio è ’l crine;
e men vivo il vital purpureo fonte
di sua vena men lungi annunzia il fine.
Ma se l’antico irresistibil foco
m’arde ancor l’alma, e spaziar pei regni
vasti di fantasia mi sembra un gioco,
forse ai carmi mercé, di viver degni,
consentirammi eternitade un loco
tra ’l numer breve de’ divini ingegni.