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iv - sonetti 111

XXV

NELL’ANNO 1796.

Quando il giovin Pelleo portò su Tebe
i dí funesti, e la beozia terra
sotto la spada, che in sua man non ebe,
miserabile aspetto offria di guerra,
inviolate le paterne glebe
stettero a lui, che sorvolando atterra
l’ardir seguace de l’aonia plebe,
e fra i numi e gli eroi si mesce ed erra.
Marte or vegg’io che in su’ miei paschi accampa,
io di carmi direi fabbro non vile,
e l’armato cavallo orme vi stampa:
né valmi a schermo onor di lauro, o stile
che de l’aure d’Apollo arde e divampa:
tanto i sacri intelletti or s’hanno a vile!

XXVI

PER UN BARBERO

che riportò il primo premio in parma.

Onor di Pisa, Ferenico, e vanto
di re, gli emuli vinti, echeggiar feo
Elide, Olimpia e lo sfrondato Alfeo;
e ’l teban cigno lo seguia col canto.
O dorico cantor, deh torna! e quanto
al coronato nell’arringo acheo
il fiorentin cavallo oltr’ir poteo,
con l’immenso tuo stil salga cotanto.
Artefice di rischi, invan s’oppose
fortuna a lui che riuscí d’inciampo,
folgore i piedi, a divorar la via.
Deh, torna! Il fior de le pregiate cose
qui siede; è qui delle bell’arti il campo;
qui Siracusa e qui Ierone oblia.