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iv - sonetti 107

XVIII

1

IL PADRE MORIBONDO

alla figlia che fa professione.

Quando, giá spenta a me l’aura diurna,
m’abbandoni la vita, e, le palpèbre
strette in gelo di morte, abbiami l’urna,
muta salma devota alle tenèbre:
e intanto il cor si roda taciturna
la dolente consorte in vel funèbre,
del mio destin segnata ombra notturna,
ne l’ora che le stelle ardon piú crebre,
a te, figlia, verrò, se ’l ciel nol vieta;
mentre dei mali che la premon tanto,
la vigil alma il vital sonno acqueta.
Mia ventura udirai, sia gioia o pianto.
Deh, se la speme il mio penare allieta,
mi sien ale i tuoi voti al regno santo!

2

la figlia al padre.

Innamorata del miglior desio,
a me, padre, negai caduco obbietto,
e a le voci del sangue, e al patrio tetto
volontario giurai perpetuo oblio.
Pur il tuo fato intempestivo e rio
tal mi fe’ forza al cor, padre diletto,
che riacceso il filiale affetto
quasi ondeggiò tra la natura e Dio.
Se non che a l’alma un balenar mi corse
novo di grazia, che al divin consiglio
sommise il core, e la ragion soccorse.
E solo ebb’io di pianto umido il ciglio,
che te securo, e me conobbi in forse,
me ancor fra l’ombre del terreno esiglio.