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nale, volesse pure onorarmi d’uno sguardo gettato sul mio libretto. «Costui, direbbero, o misura dalla propria la parvità dell’intendimento altrui, o ci guarda d’alto in basso come tanti scolaretti a’ quali tutto debba riuscir nuovo.»

Che se vi ha costaggiù taluno, — intendo tra le persone nelle quali è supponibile una discreta coltura, — taluno, dico, a cui non sia stata rotta la sonnolenza incuriosa neppure dal gran rumore fatto per lungo e pel traverso dell’Europa dalla bell’opera del signor Sismondi sulle Repubbliche italiane, tanto peggio per lui! Se il poveretto non sa che un tempo nelle vene de’ nostri antenati non iscorreva poi tutto latte; — che un tempo le soperchierie tedesche non erano in Italia ingozzate poi tutte come ciambelle calde; — che un tempo nell’elenco de’ tormentatori dei popoli venne a collocarsi un Federigo Hohenstaufen, soprannominato il Barbarossa e facente il mestiere d’Imperatore; — che questo tale Hohenstaufen, superbo e ruvido come Caino, seccafistole per eccellenza, calato e ricalato in Italia co’ suoi manigoldi, angariò principalmente la Lombardia colla prepotenza d’una volonta feroce, con tutti quei soliti bei modi di chi scende di là a padroneggiarci, a raspar quel che è nostro; — che i Lombardi invece di esercitarsi a cantare amen, invece d’addestrarsi ad inarcar le schiene, s’addestrarono ad allungar le mani, e si collegarono tra di loro; — che usciti essi in campo con le loro buone armi salde nel pugno, col loro buon cuore saldo nei petti, diedero a quell’Hohenstaufen ed a’ suoi Tedeschi un rifrusto, una ceffata solenne, proprio di quelle gustose che spicciano a un tratto gl’imbrogli; e si conquistarono così un più libero vivere civile, e trassero poi i battuti ad accettar la pace, e si tolsero di dosso tutta di fatto, e quasichè tutta anche di parole, la soggezione a quegli odiosi stranieri...; s’egli non le sa il poveretto que-