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ALLA MARCHESA MALASPINA DELLA BASTIA | 47 |
Ma dolce è il frutto di memoria amara1;
E meglio tra capanne e in umil sorte,
Che nel tumulto di ribalda corte,
24Filosofia2 s’impara.
Quel fior che sul mattin si grato olezza
E smorto il capo su la sera abbassa
Avvisa, in suo parlar, che presto passa
28Ogni mortal vaghezza3.
Quel rio che ratto all’oceàn cammina,
Quel rio vuol dirmi che del par veloce
Nel mar d’eternità mette la foce
32Mia vita peregrina.
Tutte dall’elce al giunco4 han lor favella,
Tutte han senso le piante: anche la rude
Stupida5 pietra t’ammaestra, e chiude
36Una vital fiammella.
Vieni dunque, infelice, a queste selve:
Fuggi l’empie città, fuggi i lucenti
D’oro palagi, tane di serpenti
40E di perfide belve.
Fuggi il pazzo furor, fuggi il sospetto
De’ sollevati6; nel cui pugno il ferro
Già non piaga il terren, non l’olmo e il cerro,
44di Ma de’ fratelli il petto7.
Ahi di Giapeto iniqua stirpe8! ahi diro
- 25. sí vago olezza
- 38-43. Fuggi l’empie città, fuggi i vestigi Di Marte sanguinosi e di Parigi Le vagabonde belve. Fuggi l’avaro suol di colpe infetto, Ove crudo impiagar sí vede il ferro Non il pigro terren,
le aveva data, andò a Prometeo: egli non accolse né il dono, né la donatrice. Non cosí Epimeteo fratello di lui, il quale, innamorato della bella fanciulla, prese il vaso, che, aperto, versò su la terra ogni sorta di malattie e di dolori. Cfr. Esiodo Op. e gior., 83 e Orazio Od. I, iii, 29.