E agli oggetti rendea piú vivi e freschi 35I color che rapiti avea la sera;
Dall’umile mio letto anch’io sorgendo,
A salutarlo m’affrettava, e fiso
Tenea l’occhio a mirar come nascoso
Di là dal colle ancora ei fea da lunge 40Degli alti gioghi biondeggiar le cime;
Poi, come lenta in giú scorrea la luce
Il dosso imporporando e i fianchi alpestri,
E dilatata a me venia d’incontro
Che a’ piedi l’attendea della montagna. 45Dall’umido suo sen la terra allora
Su le penne dell’aure mattutine
Grata innalzava di profumi un nembo;
E altero di sé stesso1 e sorridente
Su i benefizi suoi l’aureo pianeta 50Nel vapor che odoroso ergeasi in alto
Gia rinfrescando le divine chiome,
E fra il concento degli augelli e il plauso
Delle create cose egli sublime
Per l’azzurro del ciel spingea le rote2. 55Allor sul fresco margine d’un rivo
M’adagiava tranquillo in su l’erbetta,
Che lunga e folta mi sorgea dintorno
E tutto quasi mi copriva: ed ora
Supino mi giacea, fosche mirando 60Pender le selve dall’opposta balza,
E fumar le colline, e tutta in faccia
Di sparsi armenti biancheggiar la rupe;
Or rivolto col fianco al ruscelletto,
To mi fermava a riguardar le nubi 65Che tremolando si vedean riflesse3
Nel puro trapassar specchio dell’onda:
Poi, del gentil spettacolo già sazio,
Tra i cespi, che mi fean corona e letto,
Si fissava il mio sguardo, e attento e cheto 70Il picciol mondo a contemplar poneami
Che tra gli steli brulica dell’erbe,
E il vago e vario degli insetti ammanto
E l’indole diversa e la natura.
Altri a torma e fuggenti in lunga fila 75Vengono e van per via carchi di preda;
Guatâr l’un l’altro, come al ver si guata».
↑48. altero di sé stesso, perché egli «è padre d’ogni mortal vita». Dante Par. xxii, 116.