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PER UN DIPINTO DELL’AGRICOLA 199

sembra, della ragazza, che s’era innamorata di Andrea Mustoxidi, quantunque brutto, e che ci volle del tempo a farle dimenticare. Cfr. Ach. Monti, p. 291 e segg. Per le nozze del Perticari (in Arcadia: Alceo Compitano) colla Costanza (Telesilla Meonia) furono pubblicati dodici inni piú uno proemiale e due di appendice A gli Dei Consenti (Parma, Bodoni, 1812) da’ migliori poeti d’allora: l’Arici, il Costa, Luigi Biondi, Pellegrino Farini, Franc. Cassi, ecc. Le nozze furono tutt’altro che felici; chè, scrive il Masi (p. 242 e segg.), «degli svaghi del conte Giulio rimasero documenti piú che di ciarle malediche», ed «è troppo ferma e generale la tradizione delle galanterie e dell’umor bizzarro di Costanza da poterne dubitare». Tuttavia nelle lettere conosciute del Perticari la Costanza è nominata sempre con grande tenerezza. E le lettere di lei dopo la morte di Giulio sono tante e tutte cosí riboccanti d’affetto alla memoria del marito, che non si capirebbe veramente una finzione sostenuta cosí a lungo e con tutti». Dopo la morte di Giulio (26 giugno 1822), Costanza fu fatta «segno (com’ebbe a scrivere ella stessa) di non piú udite sventure». I conti Gordiano Perticari, fratello di Giulio, Cristoforo Ferri, fanese, e Franc. Cassi, pesarese, si levarono con mille calunnie contro di lei, che in un famoso libello del secondo venne perfino accusata della precoce morte di lui (cfr. la cit. nota al v. 2.59, e. I della Feron.). Misere vendette di amanti spregiati? Ella sopportò tutto con grande rassegnazione, sfogando il suo dolore nelle lettere agli amici. Recatasi nel ’37 a Firenze, riannodò col Niccolini un’amicizia nata nel ’20, che pare volgesse al tenero. Negli ultimi anni si diede a pratiche di devozione, che non andarono nemmeno esse esenti da maldicenza. Morí in Ferrara il 7 sett. 1840. Fu, com’è noto, scrittrice tutf altro che spregevole come mostrano le sue poesie e le lettere. Per altre notizie cfr., chi vuole. Masi, p. 239 e segg.; Scip., p. 74 e G. L. Polidori nella prefazione a Versi e lettere di C. M. Perticari: Firenze, Le Mounier, 1860. — In quanto al metro, cfr. la nota d’introd. a p. 36.

Piú la contemplo, piú vaneggio in quella
     Mirabil tela: e il cor, che ne sospira,
     Si nell’obbietto del suo amor delira,
     Che gli amplessi n’aspetta e la favella,
Ond’io già corro ad abbracciarla. Ed ella
     Labbro non move, ma lo sguardo gira
     Ver’me si lieto che mi dice: Or mira,
     8Diletto genitor, quanto son bella1.
Figlia, io rispondo, d’un gentil sereno
     Ridon tue forme; e questa imago è diva
     Si che ogni tela al paragon vien meno.
Ma un’imago di te vegg’io piú viva.2

  1. 8. Gioverà paragonare questo sonetto con un altro famoso del Petrarca (P. II, 62). Qui ne reco le quartine, che porgono materia a piú diretti confronti. «Tornami a mente, anzi v’è dentro, quella Ch’indi per Lete esser non può sbandita, Qual io la vidi in su l’età fiorita, Tutta accesa de’ raggi di sua stella, Sí nel mio primo occorso onesta e bella Veggiola in sé raccolta e sì romita, Ch’i’ grido: ell’ è ben dessa; ancora è in vita: E ’n don lo cheggio sua dolce favella».
  2. 12. Lo Zumb.