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LE API PANACRIDI IN ALVISOPOLI 193

di Napoli, e che fu poi, caduta la gloria del marito, duchessa di Parma e di Piacenza; la quale il 20 marzo 1811 gli partorí a Parigi un erede al trono in Napoleone II, duca di Reichstadt, ch’ebbe il titolo di re di Roma, e mori, dopo una vita malaticcia e ingloriosa, a Schoenbrunn presso Vienna il 22 luglio 1832. Qui è celebrata la nascita di lui. — Alvise I Mocenigo (1760-1815), veneziano, ebbe vari uftici in diversi tempi dalla sua patria e fu nel ’97; mentre reggeva Udine, giudicato ottimo governator di provincie dal Bonaparte, il quale piú tardi lo nominò cavaliere della Corona di ferro, conte e senatore del regno. «Monumento dell’alto animo suo rimanea la borgata d’Alvisopoli da lui fondata nel 1800 a quattro miglia da Portogruaro. Risaie estesissime e regolarmente sistemate, campagne fiorenti, fabbriche opportune ai bisogni e agli usi sociali, canali, scuole e persino una stamperia con gran lusso di tipi e nuove macchine, che venne poi trasferita a Venezia e tenne onoratissimo posto nelle memorie letterarie del secolo; tutto ciò fu fatto in pochi anni ne’ latifondi prima deserti del Molinato, che la sua famiglia avea acquistato dal pubblico al tempo della guerra di Candia... Certo era concetto da principe piú che da privato, e sebbene molta parte del primo disegno fosse poi pel dispendio enorme abbandonata, grandi opere vi furono eseguite, e un centro nuovo di popolazione e d’industria agricola vi fiorí e cresce sempre piú operoso a’ giorni nostri». Cfr. Litta Mocen., tav. XV. Dal Mocenigo, senatore, come abbiam detto, del regno, ebbe il Monti incarico di scrivere l’ode o, com’egli la chiama (Resn. Ep., p. 262), l’anacreontica presente: ed egli seppe in bel modo congiungere all’idea fondamentale delle Api nutrici di Giove (cfr. la nota al v. 5), le lodi della industriosa città, fondata dal grande patrizio. Fu composta tra gli ultimi di marzo e i primi d’aprile dell’11 e pubblicata subito in Alvisopoli dalla tipografia stessa del Mocenigo, ch’era diretta da Niccolò Bettoni. Fu tradotta in francese da un Lafolie (cfr. Resn. Ep., loc. cit.) e in latino dal Bellò. Cfr. Odi ecc. colla versione latina del signor L. B. Parma, Bodoni, 1812. — Il metro è lo stesso di quello della Pros. di Pericle.


Quest’aureo1 miele etereo,
     Su ’l timo e le viole
     Dell’aprica2 Alvisopoli
     160Còlto al levar del sole,
Noi caste Api Panacridi3
     Rechiamo al porporino
     Tuo labbro, augusto pargolo,
     164Erede di Quirino4;

  1. 1. aureo: È detto a significar perfezione, non già che il miele fosse (e come potrebbe?) d’oro.
  2. 3. aprica: amena e fertile. Aprico (lat. apricus da aperio) significa propriamente aperto, esposto all’aria ed al sole: quindi il Parini disse aprico anche il mare: cfr. Od. V, 119.
  3. 5. Api Panacridi: le Api nutrirono del loro miele Giove bambino in una caverna dei monti d’Ida in Creta, detti anche Panacridi o Dittèi, quando la madre Rea «vi facea far le grida» (Dante Inf. xiv, 102) dai Coribanti, sacerdoti di lei, per celare i vagiti del fanciullo al padre divoratore Saturno. Cfr. Callimaco Inno a Giove, v. 49; Virgilio Georg. IV, 152; Columella IX, 2 ecc. Altrove (La Ierog. di Creta, v. 97) il Monti stesso: «Di Giove alma nudrice, Panacrid’ape, un sol de’ favi ond’ebbe Il re del cielo per te cibo e crebbe, Dalla dittèa pendice Su miei carmi deh reca!...».
  4. 8. di Quirino: del trono di Romolo. Abbiamo detto che il fanciullo fu sa-