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CANTO QUARTO | 167 |
Poscia che dati i mirti ebbe a man piena1,
230Di lauro, che parea lieto fiorisse
Tra le sue man, fe’ al sasso una catena;
E un sospir trasse affettuoso, e disse:
Pace eterna all’amico: e te chiamando
I lumi al cielo sí pietosi affisse,
235Che gli occhi anch’io levai, certa aspettando
La tua discesa. Ah qual mai cura o quale
Parte d’Olimpo ratteneati, quando
Di que’ bei labbri il prego erse2 a te l’ale?
Se questa indarno l’udir tuo percuote,
240Qual’altra ascolterai voce mortale?
Riverente in disparte alle devote
Ceremonie assistea colle tranquille
Luci nel volto della donna immote
Uom d’alta cortesia3, che il ciel sortille,
245Piú che consorte, amico. Ed ei, che vuole
Il voler delle care alme pupille,
Ergea d’attico gusto eccelsa mole4,
Sovra cui d’ogni nube immacolato
Raggiava immemor del suo corso il sole.
250E Amalia la dicea dal nome amato
Di costei, che del loco era la diva
E piú del cor che al suo congiunse il fato.
Al pio rito funèbre, a quella viva
Gara d’amor mirando, già di mente
255Del mio gir oltre la cagion m’usciva.
Mossi al fine; e quei colli ove si sente
Tutto il bel di natura abbandonai,
L’orme segnando al cor contrarie e lente5.
- 229. poscia che dato (Cosí legge anche l’ediz. C.).
- 235-240. Che gli occhi anch’io levai, fermo aspettando Che tu scendessi, e vidi che mortale Grido agli eterni non salia piú, quando Il costei prego a te non giunse; il quale Se alle porte celesti invan percote, Per là dentro passar null’altro ha l’ale.
- 242. Cerimonie (O.).
- 247-9. Sol per farle contente, eccelsa mole D’attico gusto ergea, su cui fermato Pareami in cielo, per gioirne, il sole.
- 251. Di colei,
253. Al pietoso olocausto 255. la ragion m’usciva