sotto un gran leccio, dentro una sonora
conca di scabra pomice; che il pianto 85già pianto urgea con grappoli di stille
nuove, caduchi, e ne traeva un canto
dolce, infinito. Io là m’assisi, al rezzo.
Poi, non so come, un dio mi vinse: presi
l’eburnea cetra e lungamente, a prova 90col sacro fonte, pizzicai le corde.
Così scoppiò nel tremulo meriggio
il vario squillo d’un’aerea rissa:
e grande lo stupore era de’ lecci,
ché grande e chiaro tra la cetra arguta 95era l’agone, e la vocal fontana.
Ogni voce del fonte, ogni tintinno,
la cava cetra ripetea com’eco;
e due diceva in cuore suo le polle
forse il pastore che pascea non lungi. 100Ma tardo, al fine, m’incantai sul giogo
d’oro, con gli occhi, e su le corde mosse
come da un breve anelito; e li chiusi,
vinto; e sentii come il frusciare in tanto
di mille cetre, che piovea nell’ombra; 105e sentii come lontanar tra quello
la meraviglia di dedalee storie,
simili a bianche e lunghe vie, fuggenti
all’ombra d’olmi e di tremuli pioppi.
Allora io vidi, o Deliàs, con gli occhi, 110l’ultima volta. O Deliàs, la dea
vidi, e la cetra della dea: con fila
sottili e lunghe come strie di pioggia