fuori appariva, e in me trovai quel canto,
che si frangea nell’anima serena
piena, nell’alta opacità, di stelle.
E quel canto parlava della Terra
dall’ampio petto, che, infelice madre,
nell’evo primo non facea che mostri,
orrendi enormi, e li tenea nascosti
in sé, perché non li vedesse il Cielo.
E lei guardava coi mille occhi il Cielo,
molto in sospetto, ché l’udia sovente
gemere e la vedea scotersi tutta
per la strettura; e venir fumo fuori
nel giorno, e fiamme nella nera notte.
Al fin la Terra spinse fuor d’un tratto
la grande prole; e con un grande sbalzo
sorsero i monti dalle cento teste,
e d’ogni testa usciva il fumo e il fuoco,
che tolse il giorno e insanguinò la notte.
E non era che notte, risonante
di strida, rugghi, sibili, latrati,
e già non altro si vedea, che i mostri
lambersi il fuoco con le lingue nere.
E i mostri urlando massi ardenti al Cielo
avventarono; e il Cielo, arso dall’ira,
spezzò le stelle e ne scagliò le scheggie
contro la Terra, e in una notte d’anni
tra Cielo e Terra risonò la rissa.
Qua mille braccia si tendean nell’ombra
coi massi accesi, e mille urli ad un tempo
uscìan con essi; ma dall’alto gli astri
pioveano muti con un guizzo d’oro.