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PREFAZIONE lxxxix

quelle che il canto bello d’Esiodo ispirarono un giorno,
mentr’egli pasturava la gregge sul santo Elicona.

Dunque, una diretta investitura da parte della divinità. Egli ne ha piena coscienza, e tiene con sussiego questa posizione, senza tralasciare veruna occasione di ostentare la propria scienza e l’ignoranza altrui. E la fa sempre cader dall’alto, questa scienza. «Ottimo è il dí ventinove, ma pochi lo sanno» — «Come stanno le cose, ben pochi lo possono dire». — E si capisce bene che fra questi pochi il poeta occupa il primo posto.

Tanta ostentazione di sapienza, tanto piú ci fa impressione, quanto piú la vediamo sfoggiata a proposito di cose che a noi sembrano bazzecole. E torna a mente un aforisma di Baudelaire: «Un po’ di ciarlataneria non disconviene all’arte, anzi le confà».

E a questa tendenza di Esiodo si deve una certa aura profetica e magica diffusa un po’ in tutto il poemetto. L’hanno rilevata quasi tutti i critici; e per quanto sia piú facile sentirla che dimostrarla, tuttavia non riesce impossibile coglierne qualche indice obiettivo.

Per esempio, è l’abbondanza dei precetti, che in origine saranno stati altrettanti mòniti oracolari.

E, connessa, e in qualche modo derivata da quelli, una certa brevità icastica dell’espressione, che spesso sbocca addirittura nell’indovinello.

E soprattutto notevoli certi nomignoli, adottati con gran predilezione invece delle voci proprie, e che hanno anch’essi sapore d’enigma. Ond’ecco, la lumaca è chiamata la Casingroppa (Φερέοικος), la formica la Scaltra (Ἴδρις), la tomba l’Immota (Ἀκίνητα), la mano la Cinquerami (Πέντοζος), il ladro il Dormidigiorno (Ἡμερόκοιτος), le fiere le Giacinselva (Ὑληκοῖται), il vecchio il Tripode (si pensi al noto