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cviii | ESIODO |
ture d’Orcòmeno. - Specialmente notevole la sincerità del lavoro, che, senza partito preso, senza sistema, senza traccia di manierismo, persegue, piú per istinto naturale che con lo studio, la ricerca della verità plastica»1. Proprio cosí. È tanta l’espressione vitale di quelle figure, che un acuto investigatore delle origini greche2 ha creduto di poterne indurre il tipo etnico dell’antico Beota autoctono. «Non bisognerà riconoscere un contadino d’Acrafia, in questo Apollo3, fratello di quello d’Orcòmeno, col suo viso quadrato, la larga fenditura della bocca, la gagliarda presenza, le cosce grosse, la robusta ossatura? O piuttosto in quest’altro, col viso pieno, le guance grosse e rotonde, le labbra fini e atteggiate a lieve sorriso, fisionomia beata d’un campagnolo che non sdegna la ribotta, e si compiace fra sé e sé all’idea d’un abbondante raccolto?».
È proprio cosí. Di fronte allo spirito dell’arte quale sin da questo periodo arcaico si determina in quasi tutte le altre province della Grecia, e che mira a stilizzare, a cercare cànoni e formule e prototipi ideali da condurre lentamente alla perfezione, senza badar troppo alla realtà analitica, qui abbiamo gl’indici d’una osservazione dal vero amorosa e paziente.
Non vediamo che questa tendenza dia frutti nel gran periodo classico, nel quale altri indirizzi prevalgono, portando l’arte greca ai suoi culmini prodigiosi; ma poi, ad un tratto, ecco la graziosissima e copiosissima fioritura delle figurine di Tanagra.
Ebbe luogo, a quanto pare, nel sec. IV a. Cr., quando in Grecia tutta l’arte accenna ad emanciparsi dalla tirannia della tradizione, della solennità religiosa e della tendenza