Pagina:Poemetti italiani, vol. X.djvu/9


     Guidomi poi, dove l’arbor superba
Facean le luci d’arme, e ’n vista altiera,
Dicendo perch’al corpo morte acerba
Chius’ha la luce, e data eterna sera,
Compir l’officio funeral si serba
A noi, che mai vedrem più primavera,
Che dietro son fuggite a un tanto sole
Gli gigli gli amaranti, e le viole.

     Con tai parole alzava già la mano,
Per l’arme tor di ch’era sacro il legno,
Quel piegossi dal culmo umil, e piano
Mostrando di tal pondo esser indegno,
Poi che quella la spada, e ’l fodro vano,
Gli fur spiccate, di dolor diè segno,
Co’l gemito con qual morendo s’ange
Allor ch’in l’alpi, borea il svelle, o frange.

     Egli dell’armatura il vacuo corpo
Compon insieme, e me al servigio chiama,
Mirandol io di tema agghiaccio, e torpo,
Mentre gli erti cupressi appresso srama
Qual dissi per stupor sì vasto corpo
S’ode (ch’empiesse tant’arme) per fama,
Certo sì grande armò il scaglioso drago
Colui, che fu di strugger Francia vago.