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     Va che dal ciel converse in lor le stelle
Piovan sopra di te benigni influssi:
Vanne franca da dazj, e da gabelle
Qual se d’un nobil Vinizian tu fussi.
Se i zaffi t’arrestasser, le budelle
S’indurin loro più che sterpi, o bussi;
Onde non possan più ber, nè mangiare,
Nè far cosa che allor foss’uopo a fare.

     Così dicea Nettun; del legno intanto,
Come scoglio l’avesse urtato, e scosso,
Sonò di fuora un lamentevol pianto
Di gente che gridava a più non posso:
Oimè! crepo, oimè! scoppio, oimè! mi schianto
Pietà, soccorso, aita! oimè commosso
L’alvo mi sento! oimè la pancia mia!
Ripienezza, ostruzion, dissenteria.

     Agguagliar non si può con le parole
Il doloroso, e miserando stato
A che d’esser condotto ognun si dole,
Perchè in Cucagna avea troppo mangiato;
In lutto sono volte le carole,
E veggonsi malati in ogni lato,
Un su la piazza giace, uno in sentina,
Chi su la poppa, e chi sotto schiavina.