Pagina:Poemetti italiani, vol. VII.djvu/121


117

Di quei, che lieto fenno il viver mio
Più alcun non avvi. E tu, che della vita,
Dono mi festi... ahi fiera vista! i flutti
Ti gettaro al mio fianco; alzasti ancora,
Una volta le mani, e i lumi infermi...
Benedir mi volevi, e fosti a un tratto
Ringhiottito dall’onde. Ahi tutto è assorto!
Eppur... caro Semino, l’universo
Solitario così, per me sarebbe
Un giardin di delizie a te vicina.
Oh Dio, scorrean le vie dell’innocenza
I nostri giorni... Ah omai si spera invano.
Ma che dice il mio cor? Gran Dio perdona:
Sì, noi moriam. Del reo, dell’innocente
L’unico non sei forse arbitro eterno?
Servia d’appoggio alla smarrita amante
Che mal reggeasi all’impeto de’ venti,
Il mesto giovinetto, e si dicea:
Sì, o mia diletta, ogn’essere vivente
È già distrutto, e più non s’ode omai
In mezzo al vasto scempio una sol voce,
O Semira, il vicin primiero istante
Sarà l’ultimo ancor di nostra vita.
Sì le speranze mie tutte svaniro;
Tutte svanir le immagini soavi,
Che alle nostr’alme presentava Amore,
Onde sì lieti e brevi erano i giorni.